Come viene alla luce una madre: La depressione post-partum in ottica fenomenologica

09.07.2020

Tutti abbiamo sentito parlare almeno una volta di quel misconosciuto fenomeno che viene etichettato come "depressione post-partum". Vorrei per una volta che ci dimenticassimo subito di questo nome, per esplorare più da vicino i vissuti della donna, che nel "nascere" madre ha aperto un profondo lavoro di ristrutturazione interiore e della propria esistenza. E' vero, ci sono dei tratti ricorrenti in questa manifestazione psicologica che avviene dopo la nascita di un figlio: un senso di autosvalutazione, la frustrazione del non sentirsi capaci di soddisfare pienamente tutte le esigenze di una creatura così innocente e disarmata eppure capace di mettere con le spalle al muro anche le donne più forti; quel sentimento di rivolere indietro la propria vita di prima, il ritrovarsi a fantasticare tra una poppata e un cambio di pannolino su quelle abitudini rassicuranti e conosciute che prima della nascita del figlio costituivano le nostre giornate e adesso sono solo un ricordo confuso; il sentirsi sole ed incapaci di comunicare la propria sofferenza per via del poco spazio che in questa società viene offerto per parlare concretamente della maternità, delle sue luci così come delle sue ombre. Purtroppo i vissuti delle madri si scontrano con le aspettative che la società ripone su di loro: infondate credenze sul fatto che l'istinto materno si manifesti istantaneamente nel momento in cui il figlio nasce, irrealistiche aspettative di felicità e pienezza che il divenire madre dovrebbe, in maniera naturale, portare con sé. Non per tutte è così, ma non per questo chi fa esperienza di vissuti diversi deve sentirsi "sbagliata" oppure "una cattiva madre". E' una cattiva madre colei che scopre giorno per giorno la relazione col figlio, innamorandosi di lui lentamente, conoscendolo, senza essere stata investita da quell'onda di amore profondo e istantaneo la prima volta che lo ha tenuto tra le braccia? No. E' una cattiva madre lei che si prende la libertà e la responsabilità di dire dei "non lo so", "proverò", e si relaziona con il bambino senza delle strategie precise e preconfezionate? No. E' una cattiva madre, lei che parla della sua stanchezza, del suo sfinimento, dei suoi desideri, anche della sua frustrazione, lei che vuole essere vista anche dopo che il figlio è uscito da lei? No. Purtroppo però mi sento di dire che su questo siamo indietro anni luce nella nostra società. E' ancora inspiegabilmente predominante l'immagine della madre devota che sacrifica tutta sé stessa in nome di un figlio che poi, però (ed ecco la trappola delle aspettative!) dovrà esserle riconoscente per i sacrifici fatti. I nostri figli non ci devono niente. Così come noi donne non dobbiamo sacrificare la nostra esistenza in nome del loro amore; un bambino ha bisogno di una madre presente a sé stessa. Una donna per poter essere presente a sé stessa ha bisogno di esperienze umanamente rigeneranti, nutrienti, spiritualmente radicate, di contatto pieno con sé stessa, con la natura, con gli altri esseri umani. L'autocentratura del neonato non permette alla madre di nutrirsi all'interno di quella relazione: è un dare, costante ed unidirezionale, ad un individuo che ancora non ti "vede" poiché il neonato, nel suo mondo interno, sta ancora sperimentando uno stato di fusione con la madre nel quale prende tutto ciò di cui ha bisogno ma ancora non è capace di sostenere uno scambio.

Una donna che nella sua vita, molto prima di diventare madre, fa esperienza di vissuti autosvalutanti (di bassa autostima per esempio, o scarsa considerazione di sé), o che internamente si lascia spesso prendere da una forte autocritica, sentirà riecheggiare nelle lunghe ore dei primi mesi della maternità questi vissuti, amplificati da un senso di solitudine e di essere incompresa dalle persone che la circondano. Le attenzioni smisurate nei confronti del bambino, gli automatismi sociali che tendono a sottostimare i bisogni di una neo-mamma (una madre con dei bisogni? Che richiesta inaudita) fanno crescere dentro alla donna il bisogno esistenziale di affermarsi come individuo unico ed irripetibile. La frustrazione si tramuta in rabbia e questa diviene la più grande alleata per la sopravvivenza interiore della donna, che da fiamma piena e viva si è ritirata diventando un flebile lumino e che ha bisogno di ossigeno e combustibile per riprendere vigore e vitalità. Questa rabbia va ascoltata e salvaguardata perché se c'è una speranza di ricominciare a sentire qualsiasi altra emozione, questa speranza passa proprio dalla capacità e dalla consapevolezza di ascoltare e dare espressione alla propria rabbia. Il movimento depressivo si genera proprio nell'impossibilità di esprimere questa rabbia, che viene soffocata dal giudizio e dalla paura di essere "una cattiva madre". Non è una rabbia nei confronti del bambino, Il bambino non ha colpe: ma nel suo essere, nel suo esser-ci imperante e dal quale non ci si può tirare indietro, ha portato al pettine tutti i nodi irrisolti che la donna, nella sua esistenza, prima di diventare madre, ha nascosto a sé stessa oppure di cui non ha avuto piena consapevolezza. Il grido di rabbia e di dolore di una madre che durante i primi mesi di vita del figlio è in un costante "travaglio di sé stessa" va ascoltato, supportato, e come solo gli alchimisti sanno fare, va tramutato in oro. Perché di questo si tratta: oro, il salvaguardare la preziosità dell'essere un individuo che è la donna che diventa madre; il salvaguardare la propria integrità interiore e la propria vitalità per poter continuare ad essere per il figlio una sorgente da cui lui potrà attingere. I bisogni del bambino non si esauriscono terminato l'allattamento; eppure una madre può arrivare ad esaurire le proprie risorse anche ben prima di questo periodo, se la sua esistenza non viene accuratamente nutrita, se i suoi bisogni non vengono attentamente ascoltati. Lo spazio della terapia è proprio quel posto dove tutte queste voci possono parlare senza essere giudicate, dove ritrovare quel nutrimento di cui la donna ha bisogno, dove esplorare sé stessa nel prima e nel dopo così come nel presente dell'essere una madre; dove una donna viene vista interamente e dove l'essere madre è una parte di qualcosa di più grande.

Per questo motivo vorrei prendere le distanze dalla fissità che una diagnosi porta sempre con sé. Se la depressione post-partum esiste, ne esiste una diversa per ogni donna che diventa madre su questa Terra, le sfumature di una non saranno mai uguali ad un'altra, il travaglio interiore avrà dei tratti simili ma caratteristiche e tempi sempre diversi. Così come sarà diverso e personale il modo di superarla, di integrare questa esperienza di scuotimento profondo nella più ampia esistenza, di attraversare quel periodo di indurimento interiore riscaldandolo, da dentro, nutrendolo, ascoltandone i bisogni profondi di amore e riconoscimento. L'identità di madre potrà così portare un senso nuovo alla donna, arricchire l'esperienza che ha di sé; ma non andrà ad annullare tutto quello che la donna è stata prima, l'identità di madre non è qualcosa che può essere "appiccicata da fuori" semplicemente aderendo alle aspettative che la società ripone sulle donne nel momento in cui mettono al mondo un figlio. L'identità va forgiata da dentro, attraversando sì il dolore e la solitudine, ma nella direzione di un'autenticità che non può esistere finché è qualcuno da fuori (la pubblicità, le generazioni precedenti, la religione e qualsiasi fonte di aspettative ed etichette irrealistiche) a dare forma alla madre. Come la vita del bambino, così l'identità della madre prende vita nelle viscere della donna e va portata alla luce con un'attesa nuova e diversa, solo così può nascere una madre.